Parafrasando Gaber

Mi fa male il mondo

mi fa male il mondo

mi fa male il mondo

mi fa male il mondo

Mi fanno male le dinamiche familiari. I miei genitori mi fanno male quando dicono “hai fatto il tuo dovere”. Mi fa male quando non sono sinceri….. ma ancora di più mi fa male vederli invecchiare.

Mi fa male mio fratello con i suoi pregiudizi ma mi fa più male che non abbia cura di se stesso.

Mi fa male che sono di più le cose che odio, che quelle che amo.

Mi fa male la digestione, in tutti i sensi. Mi fanno male i peperoni, i mediocri, gli arroganti, le bocche a culo di gallina, i libri che rimangono sul comò. Mi fanno male gli e-book, anche se fanno bene alle foreste. Mi fanno male quelli che commentano qualsiasi cosa, che hanno sempre un’opinione su tutto e tutti. Mi fa male quando non ho un’opinione. Mi fa tanto male la parola “istruzione”, come se l’educazione fosse un processo passivo. Mi fanno male quelli che fanno l’Università solo perché “poi prendo il posto di papà…”, mi fanno male anche quelli che la facoltà umanistica non possono permettersi di sceglierla perché “di cultura non si campa…”.

Il lavoro mi fa male. Mi fa male il pensiero di dover servire lo Stato, questo modello di Stato, per tutta la vita. Mi fanno male le multinazionali, gli allevamenti intensivi, le spartizioni tra i potenti, il petrolio e le armi. Mi fa male il modello americano, quello europeo, quello cinese e pure quello arabo. Mi fanno male i modelli. Mi fanno molto male i confini, mi fa male il PIL e mi fa male il “debito”. In sostanza mi fa male il capitale.

Mi fanno male quelle donne che svendono il proprio corpo e ne vanno pure orgogliose. Mi fanno male i loro compagni autoritari, violenti. Gli uomini che non lavano i piatti per principio mi fanno molto male. Mi fanno male le categorie “etero”, “lesbica”, “gay”, “transessuale”, “bisessuale” etc. etc. Mi fa male chi è costretto a rendere conto a qualcun’altro della persona che ama. Mi fa male anche chi della propria sessualità ne fa un vessillo da sventolare orgogliosamente, perché l’accettazione non nasce mai dalla rivendicazione della diversità ma dalla semplice non-negazione di essa.

Le parole mi fanno malissimo. Mi fa male il web 2.0, perché il 47% degli italiani è un “analfabeta funzionale”. Mi fanno male quelli che leggono “Il Giornale” o “Libero” e quei fascisti di Casapound. Mi fa male Facebook, così male che ormai in bacheca vedo soltanto pubblicità e pagine su cui ho cliccato “mi piace”. La logica dei “mi piace” mi fa molto male. Soprattutto, mi fa male quando vedo la foto di una sedicenne svestita con 500 mi piace, e la metà provengono da uomini over25. Le emozioni facili mi fanno molto male, mi danno la nausea. Mi fa male chi sbraita, chi usa le parolacce per fomentare le folle. Mi fanno malissimo quelli troppo sicuri di se stessi. Mi fa male la “sindrome di onnipotenza da tastiera”. Mi fa male quando le persone scrivono “ho” senza h o “qual è” con l’apostrofo. Mi fa male soprattutto che queste persone dicono di essere dei giornalisti o dei gran pensatori. Mi fanno male quelli che “scrivono romanzi” e non ne leggono nessuno. Gli smartphone mi fanno molto male anch’essi. Mi fanno male quelle persone che vanno a cena fuori e stanno tutto il tempo a capo chino sul cellulare. Mi fanno male perché i piatti pesano, spesso bruciano, e bisogna ripetere “mi scusi” due o tre volte prima che si accorgono di te.

Mi fanno male anche i cosiddetti v.i.p. Mi fanno malissimo quelli che pagano per vederli in discoteca, come fossero statue. E poi di statue non ne hanno mai vista una. Mi fa male la gestione del patrimonio artistico. Mi fa male il Ministero dei beni e delle attività culturali, che non promuove né beni né attività culturali. Mi fanno male gli archeologi e i restauratori disoccupati, gli artisti venduti alle lobby, mi fa male quando giovani a cui non manca nulla preferiscono spendere tutto ciò che hanno in alcool e cocaina piuttosto che cinque euro per un’entrata al museo. Mi faccio male anch’io, a volte. Mi fa male pensare che per qualcuno non c’è scampo, non c’è nessuna via d’uscita dalla miseria e dalla disperazione. Di base, mi fanno male i ricchi, perché presuppongono l’esistenza dei poveri. Ma ancora di più mi fanno male l’ipocrisia e l’ignoranza.

Mi fa male l’io, tutti questi io che vogliono essere io in un mare di io. Mi fanno male i figuranti, cioè quelli che vogliono solo apparire, e sono anche ammirati per questo. Mi fanno male gli slogan creati ad hoc per le masse, le masse e i mass-media. I borghesi di sinistra e il loro finto buonismo mi fanno male. Mi fa male chi si riempie la bocca di cultura, di solidarietà e di valori e poi vomita ogni giorno. Mi fanno male tutti i disonesti, quelli che si credono furbi. Naturalmente, mi fa molto male il borghese di destra. Mi fa male che ormai siamo tutti degli schifosi borghesi, e anche il sessantottino sbava per avere altro denaro. Mi fa male anche l’uomo disumanizzato, quello che non ascolta mai la propria coscienza. Mi fanno male le enormi colate di cemento e i macchinoni dei ricchi. Ancora di più mi fanno male i macchinoni dei ricchi che non vanno a gas o metano, cioè quasi tutti. Mi fanno male i monumenti delle grandi città neri di smog, le strade gonfie di spazzatura. Mi fanno male gli scarichi delle industrie, i metalli pesanti nel pesce che mangiamo, mi fanno male i tumori della gente a Taranto a causa dell’Ilva. Mi fanno male le case farmaceutiche e il business degli zombie, perché quando arrivi a novanta anni e prendi trenta pasticche al giorno, allora è meglio crepare. Mi fa male che un uomo in Italia non può decidere di morire, se gli stenti sono più delle gioie. Mi fa male la scienza “ufficiale” perché è serva del business e potenzialmente corruttibile. Mi fanno male quelle persone che “è scientificamente provato!”. Come se gli scienziati non sono esseri umani, quindi fallibili.

Mi fa male che ancora non ci sono cure definitive per l’AIDS, l’epatite C e i tumori. Mi fa male l’essere malfidata. Mi fa male la Chiesa cattolica con tutti i suoi ori, i suoi sfarzi e le sue menzogne.

Mi fanno male le imposizioni. Mi fa male chi crede di possedere la verità, quindi mi fanno male tutte le religioni. Mi fa male la legge, quella stessa legge che fa morire in carcere chi coltiva marjuana o chi esprime la propria disubbidienza, ma scagiona i corrotti, gli stupratori e i mafiosi.

Mi fa male che più penso a ciò che mi fa male e più mi faccio male.

Mi fa male il fatto che mi fanno male tante cose nel mondo, eppure sono ancora qua che mi dolgo senza fare nulla per cambiarle.

Mi fa male pensare

che siamo diventati

così ciecamente abituati

al male

Mi fa male pensare

che il pensiero espresso

dalle parole

mi risulta sempre

così fatalmente banale

* Testo liberamente ispirato alla canzone/prosa “Mi fa male il Mondo” di Giorgio Gaber:

http://www.giorgiogaber.it/discografia-album/mi-fa-male-il-mondo-seconda-parte-canzone-prosa-testo

Taccio ergo non – Parlo ergo sono

La parola ripetuta

diviene (qualcosa)

nel tempo

Il silenzio ripetuto

resta (esso stesso)

immutato

E’ l’antitesi del mondo

tra il kaos e il kosmo:

la parola delimita

ciò che il silenzio

lascia in sospeso

la parola sancisce

ciò che il silenzio

non ha giudicato

Il silenzio lascia in sospeso

laddove il limite

avrebbe giovato

il silenzio non si pronuncia

laddove il giudizio

andrebbe adoperato

Il muto per scelta è muto per

essere

o Il muto per scelta è muto per

non-essere?

Artwork: Emma Abad 

Sul potere (e sulla libertà) ho tante domande

Ammettiamo che sia il potere a dare forma alle cose, e diciamo anche che chi lo subisce, per il solo fatto di porsi nella condizione passiva di ricevente, ne legittima l’esistenza, assumendo quelle forme come vere.

Il potere in questo senso può essere inteso come una convenzione sociale sedimentata, una sorta di a priori del quale non si sente la necessità di discutere, perché viene posto e recepito come una condizione “fattuale”: “così è sempre stato”, “così hanno sempre fatto”. La storia che non si può mettere in discussione.

Ma se alcuni tra gli assoggettati al potere decidono di non riconoscere una o più forme imposte, ciò li porrà in una condizione di emarginazione sociale: verranno tacciati di pazzia, verranno incarcerati o verranno semplicemente derisi.

Allo stesso modo, se quegli assoggettati insofferenti alle forme dettate dal potere divengono tanti, diciamo una maggioranza della popolazione, riuscendo a distruggere alcune delle forme prestabilite e a delimitarne delle altre, allora questi non diverranno, di nuovo, essi stessi il potere assoggettante, tradendo i propositi iniziali?

Sembra un circolo vizioso ( o virtuoso ) in cui è la massa a decidere la storia.

Ma forse è la dialettica del potere ad essere sbagliata. O forse è la libertà che va ridefinita.

A proposito dell’articolo di Alessandro Zabban: “Sharing Economy: come il capitale assorbe la sua critica”

Link all’articolo in questione:http://www.ilbecco.it/worktelling/item/2116-sharing-economy-come-il-capitale-assorbe-la-sua-critica.html#comment26

Dopo essermi laureata in storia dell’arte, mi sono iscritta ad un corso di laurea diametralmente opposto: comunicazione pubblicitaria. E questo non perché la mia passione per l’arte sia venuta meno, tutt’altro; l’ho fatto perché voglio capire, potendone osservare gli ingranaggi direttamente, dal suo intero, come quel mostro noto col nome di capitalismo agisce, quali sono le dinamiche che ne inducono il movimento e, possibilmente, come agirà in futuro. Il mio spirito da sabotatrice sociale è stato sempre vivo, fino a quando sono venuta a conoscenza di concetti come quello di sharing economy, democrazia digitale, libero accesso alle informazioni,  condivisione e peer to peer: lì qualcosa in me si è sopito, per una volta nella vita ho pensato che la mia lotta contro – a prescindere-  il sistema fosse sbagliata, che io mi ero sbagliata, che finalmente, tutti avevano capito che il modello capitalistico aveva fallito, e che coloro i quali lo avevano portato al suo picco massimo di consumi, stavano trovando un rimedio per limitarne i danni. Tuttavia, più la professoressa parlava, più gli esperti chiamati in causa durante le lezioni tentavano di conviverci di abbracciare questo nuovo mondo, ricco di opportunità e di libertà, più mi poneva questi interrogativi: è veramente questo quello che le multinazionali vogliono? davvero si sono rese conto di ciò che hanno fatto, e con umiltà stanno abbracciando valori che sono propri di una dimensione opposta alla logica del profitto? Non sono ancora arrivata ad una conclusione, per inciso. Ho potuto recuperare un po’ di fiducia nel sistema scoprendo casi di aziende virtuose, perché è vero, ci sono. Non sono nemmeno convinta che questa grande rivoluzione attorno alla parola sharing sia del tutto sbagliata, ci sto ragionando su. La domanda migliore, però, è questa: siamo ancora convinti di poter abbattere il sistema e costruire un mondo migliore? Non siamo forse tutti degli sporchi ipocriti, che percorrono anch’essi binari già segnati? E’ vero, abbiamo sempre il libero arbitrio, o meglio, citando il grande Adorno “La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta”; tuttavia è una libertà illusoria, un po’ come un bug in un videogame: continuerà a dar fastidio, ma non cambierà il gioco e non uscirà dal suo schema preimpostato. Tutto questo per dire, cari Beccai, che forse la vera lotta non è la resistenza fine a se stessa, quanto piuttosto l’esigenza di agire come se la nostra fosse una vera e proprio causa scientifica: occorre entrare nei laboratori che detengono il virus, osservarlo al microscopio, analizzarlo e scoprirne così cause ed effetti. Per poterne cambiare il corso.

La caduta degli angeli ribelli

Se mentre cammini guardi a terra, vedrai soltanto piccioni, e cacca di piccioni.

Se mentre cammini guardi avanti a te, vedrai la gente, e la gente spesso è brutta.

Ma se mentre cammini guardi in alto, vedrai solo cose belle, perché è verso il cielo che tende la perfezione.

Perugia va vissuta così: se poi, guardando in su, poggi male la caviglia sul sampietrino e cadi, pensa che anche gli angeli son caduti, da lassù.

La parabola del buon mutante

Nel precedente articolo ho tirato in ballo i mutanti, queste orribili creature che hanno colonizzato il mondo intero e che, da una decina d’anni a questa parte, iniettano il proprio letale virus anche nel world wide web, riproducendosi come cellule impazzite.

I mutanti si credono predatori astuti (ma se la prendono soltanto con i pesci più piccoli), si muovono esclusivamente in branco e sono convinti che l’unico significato del termine “valore” sia “prezzo”: sembra la descrizione dei cattivi nelle favole per bambini, e invece, si tratta del nuovo tipo (nel senso psicologico/molieriano del termine) che avanza.

E’ pur vero che i mutanti sono stati, prima che una specie offensiva, le vittime predilette dal sistema: uomini frustrati, incapaci di provare piacere nelle piccole cose e dimentichi di essere/esseri/umani. Bersagli estremamente inclini al contagio e predisposti a portare avanti un’opera di progressivo svuotamento dei valori in nome del Dio Denaro.

Questo vago scenario vi sembra forse troppo apocalittico?

Pensate per un momento al film “The Wolf of Wall Street”, adattamento dell’omonima autobiografia di Jordan Belfort, uno dei broker di maggior successo nella storia della borsa di New York.

Questa pellicola descrive al meglio la parabola del buon mutante; nel caso specifico, per metà uomo e per metà lupo: spregiudicato, arrogante, dedito alla lascivia. Un corpo privo di anima.

Non si tratta di un caso limite: i prodotti del cinema, così come quelli della letteratura, della musica e via dicendo, sono lo specchio della realtà. In particolare, i prodotti di massa sono, per antonomasia, lo specchio della maggioranza della società: confezionati ad hoc secondo e per il pensar comune.

Quello che voglio dire è che, alla maggior parte degli spettatori presenti in sala, quel film è davvero piaciuto. E non è piaciuto soltanto perché Scorsese è un bravo regista e DiCaprio un ottimo interprete: è piaciuto soprattutto perché in tanti sognano una vita proprio come il protagonista, il mutante mezzo uomo e mezzo lupo.

C’era un filosofo, nell’antica Grecia, che parlava di catarsi: quando lo spettatore, a teatro, assisteva ad una rappresentazione tragica, il suo animo si purificava dalle passioni.

Secondo Aristotele, lo spettatore medio del IV secolo a.C. (!!) provava in prima persona i conflitti dei protagonisti della tragedia, e capiva attraverso questa spiacevole immedesimazione quali fossero le azioni da non ripetere: di fatto, imparava la differenza tra bene e male e nel caso, si liberava dal pensiero di quest’ultimo.

Siete ancora convinti che il progresso sia cosa buona e giusta?

* In copertina un’opera di Simon Prades

About U.

A proposito di te

vorrei

dovrei

pronunciare parole in abbondanza

da riempire ogni scrigno

custodito gelosamente

nella stanza

Mi accorgo altresì

di inciampare

in condizionali

condizionati da mentali

condizioni

imparate a memoria

(vorrei ricordarmi anche il resto)

E dissociazioni

psico-passive

giocano

a ping pong

tra terra e cranio :

si tratta

di una paranoica scissione

di idea e forma

come potere in potenza

e lenza senza amo

Mostro e Dottore

non vanno d’accordo

quando c’è una matassa

da dipanare:

dovrei

vorrei

scegliere quale pesce

far abboccare

E’ giunto il momento

di ESSERE

senza remore

qui -ora- nel presente

RIFLETTERE

sull’immagine costante

da adottare

permanentemente

Metà-Fisica

Capisci

che la metafisicheria di cui ti parlavo

ha preso piede così prepotentemente

che la mia mente

non può più fuggire dallo schema

ricorrente

 

Mi imbatto giornalmente

in pensieri quadrati

manichini denudati

sipari alzati

palchi scoperti

puliti

bagnati

 

Ho acquisito costanza e determinazione

nel seguire il copione

non ho bisogno più

di alcun suggeritore

 

La recita mi viene spontanea

ma gioco a cambiare le carte  in tavola

così che la storia non mi risulti

scontata

 

Odio la confusione della piazza

il clap clap dell’approvazione coatta

mi rinnovo costantemente nell’umore

cambio costume

cambio dizione

scambio qualche battuta con un’altra

 

Ma l’essenza dello spettacolo

rimane

metafisicamente esatta

 

Godo del tuo anelito alla perfezione

adoro l’immobilità del tempo che passa

senza essere pressione

 

Fremo all’idea di ripetere sempre

lo stesso copione

non mi annoio:

tu regista io attore