LA SIGNORA IN VIOLA #2

La signora in viola avanza a piccoli passi verso i due ragazzi, che nel frattempo si sono presi mano nella mano, per farsi coraggio; lui ha le ascelle pezzate, mentre a lei è colata la matita nera sotto gli occhi, e la frangetta le si è appiccicata in fronte, divisa in due ciocche sudate come fosse un sipario socchiuso.

Solo qualche centinaio di metri più avanti la signora senza mignoli si è tolta gli occhiali da sole e li ha riposti nella tasca destra del suo cappotto lucido, mentre nell’altra conserva qualcosa di così piccole dimensioni che riuscirebbe a nascondere interamente nel palmo della mano. Da un cielo sgombro da nubi e così azzurro che pare finto, un sole aggressivo cade a picco in testa agli ormai sparuti viaggiatori che aspettano il treno al binario tre.

Non sappiamo quanto tempo sia passato dacché la signora in viola si è alzata dalla panca di marmo, perché il suo camminare somiglia ad una passeggiata sulle nuvole, tanto è leggiadra nei movimenti, composta e misurata; punta diritto verso i ragazzi ma è evidente che non ha fretta alcuna, e anche se ne avesse, non potrebbe darlo a vedere.

“Torniamo all’ombra Leo, mi sento mancare”, “Se scappiamo, quella ci inseguirà”, “Ma se cammina a malapena! Vogliamo aspettare che ci arrivi addosso?”, “Va bene, allora andiamo al bar, dove c’è più gente. Tutta questa storia mi sta dando alla testa”.

I ragazzi, rinfrancati dal nuovo proposito, raccolgono i bagagli e fanno per incamminarsi verso la grande insegna luminosa del bar, quando dai vetusti altoparlanti della stazione esce prima timida e gracchiante, poi sempre più potente e chiara, la voce che annuncia l’imminente arrivo del treno ritardatario, al binario tre.

I signori viaggiatori sono pregati di allontanarsi dalla linea gialla 

“Hai sentito? Sta arrivando il treno!”, “Abbiamo aspettato così tanto che proprio adesso doveva arrivare questo treno infame, e ora che facciamo?”, “Se lo prendiamo, quella prima o poi ci raggiunge. In caso contrario, perdiamo i soldi del biglietto, e chissà quanto dobbiamo aspettare prima che ne arrivi un altro!”.

I signori viaggiatori sono pregati di allontanarsi dalla linea gialla

“Ormai non abbiamo scelta, dobbiamo salire, e lei ci sta alle calcagna”.

Il treno arriva sferragliando al binario tre, la signora in viola è a qualche metro dai ragazzi e sta per estrarre qualcosa dalla tasca sinistra del cappotto viola, ma con lo spostamento d’aria i capelli le finiscono davanti agli occhi, facendola esitare per qualche preziosissimo secondo, giusto il tempo di sistemare i ciuffi ribelli dietro le orecchie.

“Saliamo, ora, muoviti!”.

In un battibaleno la coppia è sul treno; corrono sbatacchiando i bagagli ad ogni angolo dei lerci vagoni di seconda classe, in cerca del controllore. Non hanno la sicurezza che quella donna possa fargli del male, e questo non fa che alimentarne l’angoscia; non possono urlare perché passerebbero per pazzi, eppure non riescono a darsi pace, hanno disperatamente bisogno di qualcuno che li rassicuri, di un’autorità che garantisca per la loro incolumità.

“Mi scusi! Mi scusi!”, “Che problemi ci sono?”, “Io e la mia ragazza siamo davvero spaventati, in stazione c’era una signora strana, vestita di viola dalla testa ai piedi, ci ha guardati tutto il tempo, addirittura ad un certo punto – diglielo anche tu Clelia – ad un certo punto ha sbattuto gli occhi e dove prima c’era l’ombra è arrivato il sole, così, in un secondo!”, “Si, va bene, ma quindi? Che cosa vi fa pensare che sia pericolosa? La primavera può giocare brutti scherzi … ”, “Non ci prenda per imbecilli, la prego, abbiamo la sensazione che sia armata, poco prima di salire stava per estrarre qualcosa dalla tasca! Eccola, è lei, la guardi! Ci ha trovati, sta venendo verso di noi e ha qualcosa in mano!”.

“Salve signora, posso esserle utile?”, “Signora, parla la nostra lingua? Do-you-understand-me?”

La signora in viola, senza fiatare, stende il braccio sinistro in avanti, con il pugno chiuso; scorre lo sguardo vispo prima sul controllore, poi sulla giovane coppia, assicurandosi di averne l’attenzione, e fa schiudere lentamente le dita, una ad una, fino a rivelarne il contenuto.

[…]

 

La prima parte della storia la trovate qui

IL GIOCO DELL’OCA #1

Piove da giorni.

Non fa freddo, ma l’aria è umida, di quell’umido che si infila dal naso e arriva giù, fino alla gola.

 

Le mattinate sono inspiegabilmente miti, con un cielo sgombro dalle nubi. Appena sveglia spalanco le persiane e mi inchino ai raggi del sole che entrano in casa con eleganza, accarezzano dolcemente i lembi del cuscino, si spostano ad assaggiare la consistenza metallica della sedia vicino al letto e stanchi atterrano sul parquet, senza fare alcun rumore.

 

Disegnano una linea geometricamente perfetta, obliqua, dai contorni sfumati: faccio giusto in tempo a seguirne il corso.

 

Il cielo si rabbuia e l’ombra sprofonda nella plumbea luce dell’indistinto, e anche le mura della mia stanza non paiono più tanto immacolate.

 

Piove.

Goccia dopo goccia, al rallentatore, poi sempre più violentemente: ecco la grandine.

Suona i vetri delle finestre barricate, salta impazzita da una tegola all’altra come le palle matte che si vincevano ai flipper da piccoli.

 

Disegna la terra mentre il cielo tuona.

 

La tempesta è breve come il suo ricordo: appena smette di sbraitare scendo in strada e faccio la conta dei danni. Ottomila almeno sono le foglie cadute dopo essere state stuprate, quattrocento le pozzanghere che ho avuto cura di evitare lungo il tragitto.

 

Ciondolando con il naso all’insù ho respirato gli umori di un mezzogiorno altalenante: sottobosco dal parco, soffritto in padella, qualcuno che si fa la doccia con la finestra aperta, che buon odore, che bagnoschiuma usa?, cane bagnato, Narciso Rodriguez, funghi, segatura del vicino falegname, e poi ancora pneumatici, vai piano con quel macchinone tra i vicoli, ormoni adolescenziali, il vocabolario di Greco che quanto cazzo era pesante, fritto che più fritto non si può, forse questa è curcuma, e incenso, rifiuto organico e vernice, merda, oh merda l’ho pestata, erba per pulirsi e ruggine nell’acqua pubblica.

 

Eccomi qua al punto di partenza, come nel gioco dell’oca, ora ricomincio il giro. Qual è la posta in palio?

 

Piove da giorni.

Non fa freddo, ma l’aria è umida, di quell’umido che si infila dal naso e arriva giù, fino alla gola.

# REMINISCENZE #

Rewind.

In maniera analogica, come quando infilavi la matita nel foro dell’audiocassetta per riavvolgerla.

#1

Dal parrucchiere: ‘Signora, sua figlia ha i capelli ribelli, o si tagliano… o si tagliano’.

#2

Era un giorno d’estate, o così mi pare di ricordare: fuori pioveva e noi eravamo tutti stipati in una stanza, con le valigie piene di Lego aperte. Ognuno di noi doveva scegliere chi far entrare nella casa appena costruita ed io ero arrivata per ultima – anche se così non fosse stato, ero sempre e comunque l’ultima, perché ero la più piccola – quindi trovai solo un normale omino Lego giallo, con quegli occhi neri e quel sorriso finto stampato che tutti gli omino Lego normali hanno. In compenso, il vestito era a righe blu e bianche e metteva una certa allegria; tuttavia il mio omino era pelato, cosicché non mi hanno permesso di entrare in quella reggia di mattoncini. Non mi restava che scavare con le mani fino a farmi male, per cercare dei capelli che non ho mai trovato.

#3

Era il 31 dicembre ed eravamo tutti insieme come ogni anno. Quando scattò la mezzanotte, diedero un fuoco d’artificio in mano a Simone che lo piantò a terra. Al contrario. Ci fu un gran botto e per un una trentina di secondi tutto fu silenzio e cenere.

#4

In piscina, come ogni giorno d’estate. Passavo ore ed ore a nuotare e giocare e quando uscivo, metà dell’acqua era nella mia pancia, gonfia come un cocomero. Pronta a scoppiare.

#5

Gli altri bambini giocavano, urlavano, facevano a lotta: io me ne stavo sola sull’altalena, in silenzio. Pensavo alla mia mamma che era in ospedale, e avevo tanta paura di non vederla mai più. Quando è tornata, aveva un seno più piccolo dell’altro, ma il suo odore era sempre lo stesso.

#6

La mia compagna di banco, all’esame di quinta elementare, scrisse un tema dal titolo “La mamma che vorrei”. Non era la sua, era la mia.

#7

In gita, forse avevo dieci anni, a noi riservarono un pullman a parte. Dicevano che non c’entravamo tutti in quello grande. Eravamo una decina, tra genitori e figli, e cantavamo bandiera rossa, avevamo il pranzo al sacco e i piedi scalzi. Mentre tutti gli altri mangiavano pesce al ristorante, con le maestre.

#8

Della matematica mi ricordo: NON SUFFICIENTE. La maestra diceva che ero stupida, mentre mio fratello era un genio.

#9

Era la recita di fine anno. Le femminucce portavano una gonna lunga e scura, mentre ai maschietti toccarono i blue jeans. Le maestre si erano raccomandate ai genitori di farci indossare una maglietta a tinta unita, bianca. Io ero l’unica in canottiera, tra altri 49 bambini in t-shirt.

#10

Una volta andava di moda il gioco della monetina. Disegnavamo un percorso, una specie di gioco dell’oca, e lo scopo era mettersi in contatto con l’aldilà. Chissà se era davvero lo spirito della nonna Maria,  con la quale mia sorella tentava di parlare, a far muovere quella fottuta monetina, oppure se era tutta una farsa. Non l’ho mai scoperto, e forse è meglio così.

#11

Il macellaio del negozio a fianco mi saluta e mi dice qualcosa, ma io non lo capisco. Me lo ripete, ma anche questa volta io proprio non lo capisco. Spazientito, mi pone la stessa domanda per la terza volta: e io continuo a non capire. Al che, per non apparire troppo idiota, gli rispondo di NO, sperando di essere fortunata. Allora il macellaio inorridito fa: “Come, non gli vuoi bene alla tua nonna?”.

#12

Una volta sono svenuta in macelleria. Ero andata per comprare tre hamburger.

#13

Qualcuno mi ha detto che i numeri pari portano sfiga.

* Il punto è che non ho nulla da dire, sebbene ci sia tanto da dire.

Artwork by j0sh1e

Taccio ergo non – Parlo ergo sono

La parola ripetuta

diviene (qualcosa)

nel tempo

Il silenzio ripetuto

resta (esso stesso)

immutato

E’ l’antitesi del mondo

tra il kaos e il kosmo:

la parola delimita

ciò che il silenzio

lascia in sospeso

la parola sancisce

ciò che il silenzio

non ha giudicato

Il silenzio lascia in sospeso

laddove il limite

avrebbe giovato

il silenzio non si pronuncia

laddove il giudizio

andrebbe adoperato

Il muto per scelta è muto per

essere

o Il muto per scelta è muto per

non-essere?

Artwork: Emma Abad 

Sul potere (e sulla libertà) ho tante domande

Ammettiamo che sia il potere a dare forma alle cose, e diciamo anche che chi lo subisce, per il solo fatto di porsi nella condizione passiva di ricevente, ne legittima l’esistenza, assumendo quelle forme come vere.

Il potere in questo senso può essere inteso come una convenzione sociale sedimentata, una sorta di a priori del quale non si sente la necessità di discutere, perché viene posto e recepito come una condizione “fattuale”: “così è sempre stato”, “così hanno sempre fatto”. La storia che non si può mettere in discussione.

Ma se alcuni tra gli assoggettati al potere decidono di non riconoscere una o più forme imposte, ciò li porrà in una condizione di emarginazione sociale: verranno tacciati di pazzia, verranno incarcerati o verranno semplicemente derisi.

Allo stesso modo, se quegli assoggettati insofferenti alle forme dettate dal potere divengono tanti, diciamo una maggioranza della popolazione, riuscendo a distruggere alcune delle forme prestabilite e a delimitarne delle altre, allora questi non diverranno, di nuovo, essi stessi il potere assoggettante, tradendo i propositi iniziali?

Sembra un circolo vizioso ( o virtuoso ) in cui è la massa a decidere la storia.

Ma forse è la dialettica del potere ad essere sbagliata. O forse è la libertà che va ridefinita.

I frati non son più quelli di una volta – Cronache di un festival #1

A Perugia oggi è iniziata la IX edizione dell’International Journalism Festival. La situazione, per l’occasione, è singolare: il centro storico di Perugia, per la sua già modesta dimensione e a causa di un’urbanistica in saliscendi che accresce ancora di più il senso di raccoglimento dell’acropoli, può essere considerato alla stregua di un paesino di provincia, ma con le dinamiche tipiche delle grandi città. Succede sempre così, ogni volta che c’è una manifestazione in grado di catalizzare un flusso consistente di persone: Perugia diventa un palcoscenico di nicchia, dove si svolge però uno spettacolo teatrale cosmopolita. Con risultati anche goffi, a volte. Ma anche oggi, nonostante l’invasione, la mia Perugia è poetica: sarà per merito di Virgilio, lo strimpellatore innamorato, oppure di Kappio, il ragazzo che suona la fisarmonica come Bregovic ; forse più semplicemente è la primavera ad illuminarla di una luce diversa. Al primo incontro della mattinata decido di sedermi vicino ad un frate, più lontana possibile da tutte quelle persone che prendono appunti al pc, perché il ticchettio dei tasti ( ma anche se qualcuno sgranocchia cibo, se parla con il vicino di sedia, se sbuffa rumorosamente ) è qualcosa che mi fa andare fuori di testa quando sto ascoltando qualcuno parlare. Insomma, il caso ha voluto che mi fossi seduta vicino al frate più fastidioso della storia, che per tutta la durata del panel ha mandato e ricevuto messaggi con il suo smartphone, con tanto di suoneria attiva ! Quando ormai la discussione giungeva al termine, e anzi nel suo punto clou, quasi che anche io volessi intervenire, il frate mi rivolge parola in un deutschItalian incomprensibile, ed io per buona educazione sono costretta a distrarmi e a farmi ripetere la sua domanda: ‘ Ma questo – indicando sul programma cartaceo il nome dello speaker che stava parlando proprio in quel momento – non c’è ! ‘ Era Wu Ming 2 del blog Giap. ‘Mi aspettavo di vedere un cinese’ dice, e se ne va. Con il suo smartphone, il tablet e lo zaino da trekking.

Zuccherini […]

Potrei costruire un piedistallo
in legno d’ebano e castagno
un basamento su cui riporre
il tuo pregiato cuore
quando non avrai più interesse
per il mio nome

Vorrei preservare
quel tuo rossore
dopo l’amore
tenere le tue gote
al riparo dalla neve
che copre ogni odore

Adunarei così l’ardore
lo stiperei in una teca
da osservare come
una scultura museale
prima che tu
m’infligga pene che
mi facciano dimenticare

Artwork by O Zagreu 

Oceani di pelle

Lì dove nascono

papaveri rossi e cadono
stelle comete
si sganciano lacrime ondulate
a increspare superfici salate

Lì dove cresce l’attesa

monito spasmodico
prima della resa
s’inabissano percezioni supine                                                                                                          a rivoltare cielo e mare

Quanto tempo ancora
prima della terraferma?

C’è un faro in lontananza
la luce è fioca e la mente
un fantasma

Oh scialuppa
salvami, ti prego!
ho freddo e pesco
in mare aperto

Se solo potessi gridare
Terra!
Terra!
Ma le ore son piccole e gli ami
troppo pochi
per poter resistere

Acciuffami ora
basta un lembo di pelle
per poter arrembare
il mio essere prima
che mi faccia affondare

Artwork by Lily Padula